Alfonsina Morini Strada

Domenica 10 marzo la ciclabile di Roncocesi è intitolata ad Alfonsina Morini Strada.
Ci piace ricordarla con questo brano tratto dallo stupendo libro di Paolo Facchinetti “Gli anni ruggenti di Alfonsina Strada”

 

Un manico di scopa per manubrio

La tappa de l’Aquila era stata tanto «Sconvolgente nella sua durezza che la giuria del Giro decise di assumere un atteggiamento di benevolenza nei confronti di Cividini e Aperlo che erano giunti al traguardo fuori tempo massimo: se volevano, potevano continuare a correre e a usufruire del vitto offerto dall’organizzazione. Ovviamente sarebbero stati considerati fuori classifica e dunque non avrebbero goduto degli eventuali premi guadagnati con una vittoria o con un piazzamento, né sarebbero state accettate scommesse sul loro nome al totalizzatore ufficiale. Cividini e Aperlo accettarono: a quel punto per loro era più importante arrivare in qualche modo a Milano e farsi abbracciare dagli amici e dai parenti piuttosto che tornare a casa anzitempo. Anche perché – e questo era alquanto imbarazzante – una donna, l’Alfonsina Strada, era ancora in corsa.

Alfonsina era in corsa, ma in precarie condizioni di salute. La tappa del Macerone le aveva succhiato ogni energia, la caduta patita le aveva riacutizzato il terribile male al ginocchio. Era visibilmente dimagrita e sofferente. Non aveva gran voglia di fare certe cose, ma doveva: lavò maglietta e calzoncini, ricucì pazientemente i pneumatici bucati, ripulì gli ingranaggi della bicicletta. Trascorse la giornata di riposo lavorando, piena di dubbi e di tormenti: sarebbe mai riuscita ad arrivare in fondo a quell’avventura? Fra pochi giorni il Giro avrebbe fatto tappa a Bologna, a casa sua: non voleva arrivarci in anticipo col treno e con la valigia in mano, voleva arrivarci in bicicletta, orgogliosa della sua impresa, per poter guardare i suoi e dirgli: avete visto che cosa è capace di fare “la matta “?

Motivo di consolazione fu la visita che le fece “Eco”, il direttore della Gazzetta dello Sport, nella sua stanza d’albergo. Le chiese come stava, le fece i complimenti per quello che aveva fatto finora, la ringraziò a nome di tutta l’organizzazione perché indubbiamente la sua presenza stava giovando alla popolarità del Giro. Alfonsina lo stette ad ascoltare, sorridendo per quel che le riusciva. Stava per congedarlo, aveva una gran voglia di sdraiarsi, quando Colombo la fermò con la mano, come a dire: non ho finito. Da una tasca della giacca tirò fuori una busta gialla e gliela porse: «Tenga, questa è suo…» Avrebbe potuto aspettare a fine corsa, ma voleva sollevarle il morale, temeva che quella donna che ora appariva così fragile avesse voglia di arrendersi anzitempo.

Alfonsina prese la busta, l’aprì lentamente. Non sapeva che cosa vi avrebbe trovato. C’erano dei soldi. Tanti. Li contò: erano 500 lire, una piccola fortuna. Colombo le spiegò che provenivano dalle sottoscrizioni fatte dai suoi ammiratori di tutta Italia: non doveva considerarli un’opera di carità ma il segno del riconoscimento per quanto stava facendo e avrebbe sicuramente fatto. Colombo era uno che con le parole ci sapeva fare, sapeva come toccare le corde della gente. Ad Alfonsina si inumidirono gli occhi: queste non erano le lacrime di dolore o di rabbia che segretamente le erano spuntate ogni volta che era caduta, erano lacrime buone, di quelle che vengono dal cuore.

Ringraziò il direttore e gli chiese: «Mi può portare a un ufficio postale?» «Sciura Strada, ci mancherebbe, venga, ho la macchina qui sotto».

Arrivata alle poste, spedi due vaglia. Uno destinato all’istituto per malattie mentali dove era ricoverato il marito; l’altro, a un collegio di suore dove aveva fatto mettere una bambina, Elena, figlia di sua sorella Lina, emigrata a Parigi, e di cui aveva deciso di prendersi cura. Da qui sarebbe nato l’equivoco, dopo la sua morte, di una figlia misteriosa di cui lei spesso parlava ma che non si era mai vista.

Né del marito in manicomio né della bambina in collegio erano al corrente gli organizzatori del Giro, né tantomeno i giornalisti: non voleva che, conoscendo queste storie, le venissero usati favori particolari. Le andava bene di essere considerata una donna dura, che aveva lasciato casa e marito per togliersi il capriccio di correre in bicicletta. Sapeva lei, quali sentimenti e quanta generosità aveva dentro. E questo le bastava.

Finì anche la giornata di riposo. Alfonsina si preparò a un’altra levataccia. Adesso c’era la L’Aquila-Perugia, ottava tappa, 296 km di saliscendi, partenza alle 4.30 del mattino del 24 maggio. Pioveva a dirotto e tirava vento, le mantelle che i corridori indossavano non servivano granché a proteggerli dal freddo. Un giornale avrebbe annotato, a proposito di Alfonsina: «Nonostante l’enfiagione al ginocchio che l’ha tormentata per tutta la giornata di riposo, è lì imperterrita al suo posto di battaglia».

E battaglia fu. Approfittando delle caratteristiche del percorso che gli si confacevano, Enrici cominciò subito ad attaccare Gay. Furono ore di scatti e di rincorse, di tregua e agguati. Le strade fangose e la pioggia ininterrotta rendevano la fatica dei corridori ancora maggiore. Altri due si arresero, in gara adesso ne restavano quarantuno: in due settimane se ne erano persi per strada una cinquantina. Alfonsina arrancava in ultima posizione, il ginocchio gonfio e dolorante non le dava tregua. La pioggia le entrava nella pelle, il vento le bruciava le gambe nude. Poca gente lungo le strade, poche urla, solo il rombare dei motori e dei pensieri in testa. Diverse volte fu a un passo dall’arrendersi, ma sempre trovò la forza per proseguire. Aveva mangiato poco, come al solito, e come al solito aveva passato qualche boccone a compagni in crisi di fame, sicché nel momento in cui ne aveva più bisogno si era anche ritrovata senza sostentamento. In più dovette subire altri colpi della malasorte. A un ceno punto le si spezzò il manubrio della bicicletta. Non aveva a disposizione pezzi di ricambio o meccanici. Perdette tempo a tentare di riparare da sola il guasto e, quando stava per arrendersi, una massaia le venne in soccorso. Fu un geniale colpo di fantasia: la brava donna spezzò in due una scopa, diede all’Alfonsina metà manico e un po’ di spago e assieme legarono quell’inedito accessorio al moncone del manubrio. Nuvolari è passato alla storia anche per aver guidato una volta senza volante, purtroppo nessuno ha mai ricordato che Alfonsina Strada fece qualcosa del genere in bicicletta…

A Perugia giunse per primo ancora Enrici. Aveva impiegato 11 ore 12’18” per arrivare al traguardo. Secondo si piazzò Enea Dal Fiume a un minuto e mezzo. Dovettero passare quasi venti minuti per veder spuntare il terzo, il miracoloso Rossignoli di quarantadue anni, cui aveva sicuramente giovato l’esperienza nell’affrontare corse in condizioni meteorologiche avverse: sapeva quando fermarsi a mangiare, quando rallentare o accelerare per favorire la circolazione del sangue. Dopo, una teoria di corridori distanziati l’uno dall’altro da distacchi consistenti: Gay, in crisi più che mai, si piazzò al 10° posto a 39′ da Enrici. Tragella arrivò a due ore e tre quarti. Sopraggiunsero Manicardi a 3 ore e 15′, Fasoli a 3 ore e 24′. Fumagalli a 3 ore e 28′

Ultima fu – per la terza volta – Alfonsina Strada: tagliò zigzagando la linea del traguardo verso le nove di sera, con la sua ridicola bici dotata di un manico di scopa al posto del manubrio. Era distrutta, il suo volto era rigato di gocce, non si sa se lacrime o pioggia. Dall’arrivo di Enrici erano trascorse 3 ore 43’22”.
I cronometristi lo sapevano già, come lo sapeva Alfonsina: era arrivata fuori tempo massimo! Bastò un’occhiata scambiata con i giudici per capire la situazione: a termini di regolamento doveva fare le valigie e tornarsene a casa. Nessuna pietà. Domani ci sarebbe stata la comunicazione ufficiale.

Zoppicando andò a ritirare il sacco con i suoi indumenti, si informò sulla strada per l’albergo, poi si avviò da sola, in bicicletta. Pensava a una sola cosa: aveva perso la sua sfida agli uomini, aveva preso atto che una donna non può correre le corse dei maschi, avevano ragione a casa quando le davano dell’incosciente; che cosa avrebbero detto tutti quei bolognesi che fra due giorni l’aspettavano nella sua città per applaudirla?
Si lavò, si cambiò, si gettò sul letto e si perse in un sonno tormentato.

Quella sera nessun massaggiatore avrebbe bussato alla sua porta.

…..

 

Tratto dal libro di Paolo Facchinetti “Gli anni ruggenti di Alfonsina Strada”

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